L’emancipazione femminile in Medio Oriente e Nord Africa

di Francesca Daniele

Da secoli – ma con delle eccezioni – le donne del Medio Oriente e Nord Africa sono sottomesse ad una società e un governo che interpreta i Testi Sacri con una visione patriarcale. Tuttavia, è importante menzionare i progressi raggiunti nel tempo grazie all’attivismo femminista fiorito in diversi Paesi di questa regione.

Marocco
In Marocco, la lotta per la parità dei diritti iniziò già nel nuovo regno indipendente degli anni ‘60 in cui le donne che avevano lottato per liberare il Paese dal protettorato francese cercarono di modificare la Mudawwana, un insieme di decreti che attribuivano agli uomini, in modo esplicito, il potere sulle “loro” donne: basti pensare che le donne necessitavano dell’approvazione di un wali (un parente di sangue o di matrimonio maschio) per permettere loro di sposarsi, stipulare un contratto, lavorare fuori casa o ottenere il passaporto. Sebbene il codice fosse un simbolo dell’identità politica e dell’indipendenza del Marocco, esso costringeva le donne a pagarne il prezzo, subordinandole all’uomo.

Dopo anni di lotte, Il 12 marzo del 2000 Casablanca e Rabat sono state lo sfondo di due proteste importanti e opposte, in relazione alla riforma del Mudawwana. A Rabat, attraverso canti, striscioni e discorsi, migliaia di persone marciarono per le strade a sostegno del miglioramento dei diritti delle donne marocchine attraverso l’applicazione di riforme sulla legge. Come reazione contraria, si svolse a Casablanca una manifestazione che si opponeva a qualsiasi revisione del codice. Secondo i protestanti conservatori di Casablanca, qualsiasi revisione del Mudawwana sarebbe stata contraria ai principi islamici e avrebbe consentito un potere alle potenze occidentali imperialiste e sioniste sull’identità del Marocco: la loro era una resistenza al fenomeno non neutrale- ma di matrice occidentale- della globalizzazione, che avrebbe emarginato i loro valori.

Il re Muhammad VI mostrò vicinanza alla causa e decise di sostituire la Mudawwana con una nuova legge approvata nel 2004: Il codice della famiglia. Tra i suoi scopi vi era quello di “liberare le donne dalle ingiustizie che subiscono” e introdusse diverse novità tra cui la rimozione dell’obbligatorietà del wali.
Ad ogni modo, la sfida più ardua sarebbe stata quella di apportare dei cambiamenti nella mentalità delle famiglie, un ambito in cui spesso la gerarchia di genere continua ad esprimersi violentemente e in cui il programma riformatore dello Stato non si estese. A tal fine, le autorità e le organizzazioni hanno creato degli spazi di rifugio per proteggere le donne dalla violenza dei codici familiari o tribali, con risorse purtroppo limitate rispetto alle richieste di aiuto

Iran
L’apice dell’oppressione per le donne iraniane fu raggiunto probabilmente negli anni ’80, con l’ascesa al potere dell’Ayatollah Khomeini (1979-1989). In quel periodo fu lanciata una “rivoluzione culturale”: le donne furono costrette a indossare l’hijab, furono allontanate dall’amministrazione e da una serie di professioni. Paradossalmente, in questo clima repressivo, le donne iraniane ebbero la capacità di sfruttare il nazionalismo della nuova repubblica di Khomeini per mantenere una certa libertà: a condizione che partecipassero alla causa della repubblica potevano avere un ruolo attivo nella sfera pubblica.

Negli anni successivi alla morte dell’Ayatollah Khomeini iniziò un periodo liberale con la presidenza di Khatami (1997-2005) che vide una fioritura del giornalismo, della letteratura e dell’arte femminile, un mezzo per le donne per parlare di problemi sociali relativi alla loro condizione.
Oggi sappiamo però che da quel periodo la situazione è peggiorata sempre di più.

Palestina
Se il nazionalismo anti-sionista elevava simbolicamente le donne, di fatto e in termini di diritti, esse stavano lottando contro una doppia occupazione: quella dello Stato israeliano e quella della società patriarcale palestinese. Eppure, il loro ruolo era stato chiave nella resistenza degli anni ’20 e ’30 e soprattutto in seguito alla Nakba, l’esodo palestinese in seguito alla disfatta del 1948. L’eccezione alla marginalità di fatto delle donne era costituita dalle organizzazioni palestinesi socialiste e marxiste critiche nei confronti dei valori patriarcali. Tra i simboli femminili di questa lotta non si può non menzionare Leila Khaled del FPLP, protagonista di due drammatici dirottamenti aerei di linea: è famosa la sua foto con indosso una kefiah mentre impugna un’arma automatica, diventando così un’icona rappresentante i nuovi ruoli che la donna poteva ricoprire nella società.

Durante la seconda Intifada (Intifadat al Aqsa, 2000-2005), le lotte furono caratterizzate dalla comparsa delle donne kamikaze: la consapevolezza che le donne palestinesi erano pronte ad uccidere e morire per la causa palestinese destabilizzò le sicurezze degli israeliani e l’opinione pubblica generale.

Il direttore si scusa con Francesca Daniele per il ritardo nella pubblicazione del testo, brava.

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