Israele ancora in crisi, che succede?

di Andrea Della Corte

Khader Adnan, 44 anni, padre di nove figli, esponente di spicco della Jihad islamica palestinese è morto nella prigione israeliana di Ramle il 2 maggio scorso dopo ben 87 giorni di sciopero della fame. Adnan era stato arrestato altre volte in passato ed aveva condotto altri scioperi della fame, ma in questa occasione ha perso la vita. Le autorità israeliane si difendono affermando che Adnan aveva rifiutato qualsiasi tipo di cura medica, dall’altra parte la Jihad islamica accusa Israele di essere responsabile della morte del loro leader. Stessa posizione è tenuta dall’Anp (Autorità nazionale palestinese), da Hamas e dall’Iran.

La risposta armata alla morte di Adnan non si è fatta attendere, infatti già nel pomeriggio del 2 maggio una ventina di razzi sono stati lanciati dalla Striscia di Gaza contro il sud di Israele, che ha risposto con colpi di artiglieria. Gli scontri, continuati durante la notte, sono stati interrotti da un cessate il fuoco concordato tra esercito israeliano e gruppi armati della Striscia.

La morte del leader jihadista rappresenta un altro tassello del progressivo logoramento dei rapporti tra israeliani e palestinesi, come dimostrano i recentissimi raid missilistici contro la Striscia di Gaza che hanno provocato decine di morti e feriti. Allo stesso tempo il caso di Adnan è un elemento di ulteriore instabilità per Israele che sta attraversando una policrisi senza precedenti. Dal punto di vista della politica interna la riforma giudiziaria promossa dal governo a guida Netanyahu ha provocato la più grande ondata di proteste della storia del paese. Dal punto di vista delle relazioni diplomatiche i rapporti sempre più tesi con i vicini palestinesi hanno provocato allarme e preoccupazione nei tradizionali alleati.

Il governo guidato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, oramai al suo sesto mandato, è percepito come l’esecutivo più a destra della storia di Israele. Infatti esso è composto non soltanto da membri del Likud, partito del premier, ma anche da rappresentanti di partiti ultraortodossi e di estrema destra, come Shas o Sionismo Religioso.

La riforma giudiziaria promossa dall’esecutivo si caratterizza per una sostanziale riduzione dell’indipendenza della magistratura rispetto ad influenze politiche: la possibilità che la maggioranza semplice della Knesset possa rigettare le decisioni della Corte Suprema, il controllo dell’esecutivo sulle nomine dei prossimi giudici presso la stessa Corte e così via. Queste sono posizioni inquadrabili in una progressiva diminuzione della democraticità dello stato israeliano. Proprio questo dato ha preoccupato le centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza per protestare anche piuttosto ferocemente contro la suddetta riforma. Essa è tanto voluta dall’esecutivo perché risolverebbe i non pochi guai giudiziari che riguardano alcuni membri del governo e lo stesso premier. A causa delle proteste Netanyahu ha preferito rimandare i lavori legislativi sulla riforma alla sessione estiva della Knesset.

Allo stesso tempo il governo, per via delle sue posizioni estremiste, si fa portatore di una politica particolarmente aggressiva contro i palestinesi che si caratterizza per un incremento dei raid nella Striscia di Gaza e per un aumento delle violenze in Cisgiordania dove l’obiettivo dell’esecutivo è quello di regolarizzare gli insediamenti israeliani nell’area. Questa situazione ha portato ad una serie di incontri multilaterali tra i paesi dell’area medio-orientale, cui ha partecipato anche la delegazione israeliana, per regolarizzare e raffreddare le tensioni nella zona.

Nonostante le rassicurazioni israeliane nulla di concreto è stato fatto. Ciò ha determinato l’allontanamento di un possibile accordo di pace con l’Arabia Saudita e uno stato d’allerta per gli altri stati, quali Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed anche Stati Uniti. Inoltre il recentissimo accordo siglato a Pechino tra Arabia Saudita e Iran è stato un altro grave colpo per la politica estera di Netanyahu.

La necessità di soddisfare le richieste delle ali più estreme del governo e l’esigenza di rassicurare i tradizionali partener diplomatici fanno mantenere a Netanyahu una posizione di precario equilibrio che non sta giovando né alla stabilità economica e politica del paese, né alla sua sicurezza.

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