Durante la Prima Repubblica, i partiti godevano di un potere spropositato, che confluiva anche nell’illegalità e nella corruzione. Dopo Tangentopoli, con i politici in galera, il concetto di partito è radicalmente cambiato (in peggio) e, con esso, la democrazia. Politici Corrotti

Era meglio quando i politici erano corrotti

di Gianluca Gautieri

Partitocrazia è il termine giornalisticamente utilizzato in riferimento a quel sistema di potere che aveva monopolizzato la politica italiana dal ’48 a Tangentopoli, sull’aspetto politico, economico e sociale. La critica era rivolta allo spropositato potere dei partiti, che non erano dei semplici strumenti democratici come da costituzione, bensì delle lobby di privilegi, tra corruzione e favori sottobanco.

Quella casta politica era basata su di un illecito sistema di potere, smascherato e smontato dalle inchieste di Mani Pulite, con relativi processi avutisi dal 1992 in poi, che provocarono lo smantellamento di quel sistema tangentizio di cui tutti erano al corrente, ma che mai fu messo in discussione prima di quel momento.

Il partito era a tutti gli effetti il centro di applicazione di tutti quegli illeciti benefici, a cui si poteva accedere solo appartenendo ad una casta di uomini potenti, tutti aggregati all’interno dell’organizzazione partitica.

Grazie ai rapporti all’interno del partito (ma anche fra partiti opposti), si aggrovigliava una consuetudine tangentizia che sembrava essere una semplice prassi, alla quale non ci si poteva sottrarre neanche per personale volontà.

Ma lo spropositato potere dei partiti era riscontrabile anche all’interno della comunicazione politica. Esistevano i partiti di massa (fra tutti Dc, Psi, Pci), che avevano sostanzialmente monopolizzato il dibattito, facendo presa su degli ideali che essi rappresentavano appieno.

La sinistra era vera sinistra, ad oggi sembra impensabile, ma la classe operaia si riconosceva a tutti gli effetti nella battaglia di sovversione del sistema impugnata dal Pci. Così come esisteva la sinistra più riformista (oggi diremmo socialdemocratica) del Psi, e la gestione quasi monocratica della Dc, che era la vera classe dirigente del paese, basata su valori popolari che avevano notevole presa sull’elettorato italiano.

Quando i nostri genitori o nonni si dirigevano alle urne, sceglievano sulla base di ideali, modi diversi di analizzare e desiderare la società, che erano molto precisi, condivisi, e soprattutto rappresentati. Il dibattito non era sterile, forte di una contrapposizione ideologica vera e molto sentita. Ci si spaccava la testa per la politica, magari anche di peggio. Non è un caso che l’affluenza alle elezioni fosse sempre al di sopra dell’80%, utopia.

Il merito per cui la lotta politica fosse così sentita, è senz’altro attribuibile ai partiti ed ai politici. È la comunicazione partitica che sceglie in quale direzione spingere il dibattito democratico (con più o meno successo), e la democrazia è morta dal momento in cui i partiti, da Tangentopoli in poi, hanno smesso di comunicare ideali, per lasciar posto ad una demagogica retorica populista, sulla base della quale non è più il partito a guidare l’opinione pubblica, ma è quest’ultima ad essere assecondata dalla politica.

Cambia dunque la direzione casuale delle idee politiche. Il politico non è più colui che è in grado di ispirare un nuovo o preesistente ideale, che masse di elettori scelgono di seguire; rappresenta bensì quel personaggio che tenta di ottenere il maggior numero di voti, assecondando il malcontento, l’ignoranza e la pancia del popolo.

È chiaro che questo tipo di comunicazione, che al giorno d’oggi va per la maggiore, polarizza l’inchiostro dei giornali e le grida dei dibattiti televisivi su contenuti praticamente inesistenti. Un dibattito che perde di qualità, in cui le complessità delle problematiche scientifiche e dei temi di natura amministrativa, vengono semplificati in brevi slogan e coinvolgenti discorsi, che non trovano riscontro pratico nella realtà.

La responsabilità è senz’altro imputabile alla morte dei partiti, che ad oggi esistono in una salsa criticamente diversa. Essi non sono più basati sugli ideali, quanto bensì sul carisma dei leader e la cifra comunicativa che questi pongono in essere. Perché se chiedete ad un vostro conoscente cosa abbia votato, questi vi risponderà Giorgia Meloni, non Fratelli d’Italia ed il suo programma, oppure Giuseppe Conte, non il M5S ed i suoi ideali.

È chiaro che il mutamento della comunicazione politica in Italia, sia attribuibile principalmente alle inchieste di Mani Pulite, che hanno fattualmente esautorato i vecchi partiti della Prima Repubblica, smontando il loro sistema ideale e di potere (portando dietro le sbarre un’intera classe parlamentare).

È però necessario puntualizzare la globalità del fenomeno, che non è strettamente italiano, e la responsabilità non è dunque imputabile esclusivamente alla giustizia di Tangentopoli.

Dovremmo citare il crollo del muro di Berlino, che ha di fatti depolarizzato il dibattito politico, portando alla fine del comunismo come ideale di massa, e la lotta di contrapposizione ad esso conseguente. Così come l’avvento dei social network, che hanno irreversibilmente velocizzato e semplificato la democrazia.

In conclusione, la Prima Repubblica non fu certo un periodo brillante in quanto a legalità ed onestà della classe politica. Era però così strettamente necessario sostituire la partitocrazia con la completa esautorazione dei partiti?

Perché il partito politico, per definizione, è l’intermediario tra classe dirigente e società civile, è il cuore della democrazia. Quel mezzo sulla base del quale il cittadino può controllare la politica e far valere le proprie posizioni. Ma quando la comunicazione partitica diventa retorica ingannevole, che si aggancia ad una fittizia vicinanza al popolo, il partito perde della sua efficacia, e la democrazia muore.

il direttore

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