Jafar Panahi, il regista che ha sfidato il regime iraniano

di Domenico Di Marco

All’inizio del secondo capitolo dell’Evoluzione creatrice, opera del filosofo francese Henri Bergson, si legge: “Faremmo presto a determinarne la direzione se la vita descrivesse una traiettoria unica comparabile a quella di una palla lanciata da un cannone. Ma qui abbiamo a che fare con una granata che subito scoppia in frammenti”.


Tale affermazione può essere assunta come parabola di tutto un cinema, e di tutta quell’arte che si trova in perenne conflitto. Ora contro il tempo, ora contro la morte, ora contro sé stessa, e ora contro le strutture economico-amministrative che organizzano il mondo, e quindi le sue impalcature socio-politiche, come nel caso di Jafar Panahi.

Chi è Jafar Panahi

Regista, sceneggiatore, interprete, montatore, direttore della fotografia e delle musiche, Panahi col suo “Taxi Teheran” ci offre uno spaccato dell’Iran attraverso un’opera “clandestina” che, infatti cerca di raccontare una nazione a partire dalle restrizioni sui cui si mantiene in equilibrio. L’esigenza di realizzare, questo film nel 2015, nasce infatti dalla sentenza del Tribunale di Teheran, che nel 2010 aveva imposto al regista il divieto per vent’anni di “dirigere film di ogni tipo, di scrivere sceneggiature, di concedere interviste alla stampa nazionale ed internazionale”.


Parallelamente, il regista è stato soggetto di una condanna a cinque anni di reclusione per aver fatto parte di “un’organizzazione illegale allo scopo di sovvertire lo Stato” e ad un altro anno per “attività di propaganda lesive dell’immagine della Repubblica Islamica”. Dopotutto l’autore era già stato arrestato nel 2009 mentre prendeva parte alla commemorazione di una giovane donna uccisa durante le manifestazioni seguite alle contestate elezioni di giugno.


Questa vicenda rese il filmmaker uno degli artisti più ostacolati dal presidente Ahmadinejad, tantoché le sue pellicole furono bandite da tutte le sale cinematografiche del paese. Nel clima di tensione, però, la detenzione dell’autore si è trasformata in un simbolo per il regime che vuole dimostrare, con la repressione e la censura, di mantenere il controllo del Paese.

Il film ed il suo grido di libertà

In Taxi Teheran, l’espediente intelligentemente utilizzato dal regista iraniano per aggirare la censura ai suoi danni, è stato girare “clandestinamente” tutto il suo film all’interno di un taxi, nel quale lo stesso Panahi si finge un’autista all’insaputa dei suoi passeggeri.


Un insegnante delle elementari e un ladro che discutono della pena di morte, un nano venditore di DVD, una giovane sposa col suo marito moribondo, un’aspirante cineasta nipote dello stesso regista, e altre figure emblematiche. Personaggi raffiguranti ognuno una parte dell’Iran, che si intrecciano e si alternano in un taxi che diventa l’emblema stesso della condivisione. Questa unione tra cinema e politica diventa il mezzo attraverso il quale, i cittadini iraniani e l’Iran, emergono sulla base di incontri-scontri che sottendono non solo il clima acceso del paese, ma anche la creazione stessa dell’opera d’arte.


Il taxi in questo senso, non è solo un’istituzione collettiva, ma anche il simbolo di un regime chiuso, che cerca di tracciare per ognuno «una traiettoria unica comparabile a quella di una palla lanciata da un cannone», parafrasando il già citato Bergson.


Guardando quest’opera in cui non sappiamo mai se la storia si svolge sui registri del documentario o del cinema di finzione, ci è finalmente chiaro che le traiettorie del mondo non sono uniche, non sono quelle di una palla di cannone, come vogliono farci credere i regimi. Quando ci interfacciamo alla realtà «abbiamo a che fare con una granata che subito scoppia in frammenti».


Non è un caso che il film termini con una schermata nera, senza titoli di coda, proprio per tutelare coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo film. Col suo schermo nero finale, esso non fa che ribadirci l’esigenza di emettere un urlo contro la censura, sottolineando forse il fatto che se questa schermata dovesse restare nera, il vuoto che l’ha generata non potrà fare altro che protrarsi e inevitabilmente ripetersi.

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