La Tunisia di Kais Saied: analisi di un sogno infranto
di Francesca Daniele
Le primavere arabe del 2011 non avevano di certo illuso l’opinione pubblica araba e internazionale; è risaputo infatti che i processi di democratizzazione siano tutt’altro che facili. Eppure è preoccupante che lo stesso motore delle proteste, la Tunisia, stia regredendo a una dittatura “mascherata”.
La minaccia ha un nome, Kais Saied, ex professore di giurisprudenza, che dopo essere stato eletto presidente della Tunisia nel 2019, ha accentrato il potere nelle sue mani, dirigendo il Paese verso un sistema presidenziale. «Siamo uno Stato sovrano, siamo consapevoli degli equilibri internazionali e conosciamo meglio di loro accordi e convenzioni. Non siamo un popolo selvaggio. E non accettiamo di interpretare il ruolo dello studente con loro a fare da insegnanti»: la risposta decisa alle critiche degli ambasciatori del G7, non ha rassicurato neanche il suo omonimo in Turchia, il presidente Erdogan, il quale ha definito lo scioglimento del Parlamento come “una diffamazione della democrazia”.
Ma quali sono le decisioni che hanno messo in allerta i governi di diversi Paesi?
In primo luogo, una serie di rimozioni forzate, tra cui quella dell’ex premier Hichem Mechichi; inoltre, dal 2021 il Parlamento non può riunirsi e tantomeno legiferare; la Costituzione scritta nel 2014, la soluzione che pose fine al regime di Ben Ali, non è più considerata valida; i partiti sono stati accusati di corruzione e il Consiglio di Magistratura è stato sciolto d’imperio.
Il versante economico non sembra andare meglio: dopo la pandemia, che ha peggiorato una crisi già esistente, la recente guerra in Ucraina ha colpito le importazioni di grano, che erano coperte per la maggior parte da Russia e Ucraina. È ormai chiaro che il Paese da solo non riuscirà a riprendersi; tuttavia gli aiuti esterni richiedono requisiti non facilmente realizzabili: il Fondo Monetario Internazionale ha promesso un prestito di 4 miliardi di dollari a condizione che il Paese raggiunga una stabilità politica.
Da maggior contributore finanziario e azionista del FMI, gli Stati Uniti hanno un potere egemone nella determinazione di una direzione strategica, a quanto pare però il destino della Tunisia non sembra essere al momento una priorità per il governo Biden e i suoi alleati. Eppure il potenziale collasso dell’economia tunisina potrebbe avere degli effetti di “spillover” che avrebbero ripercussioni sulla regione intera.
Ad ogni modo, il presidente non accetta responsabilità ed ha piuttosto messo in atto una politica discriminatoria nei confronti dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana. Secondo Saied infatti, “orde di migranti irregolari” erano arrivati “con la violenza, i crimini e i comportamenti inaccettabili che ne sono derivati” per “cambiare la composizione demografica” e rendere la Tunisia “un altro stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”. Una strategia che sta costando caro alla sicurezza dei migranti, basti pensare alla reazione del popolo dopo i commenti razzisti del presidente durante il Consiglio per la sicurezza nazionale: grandi folle erano scese in strada aggredendo migranti, richiedenti asilo e studenti. Nonostante le denunce però, la polizia è rimasta a guardare.
Avvocati senza frontiere, una ONG che fornisce aiuto ai richiedenti asilo e ai migranti, ha stimato che dall’inizio di febbraio almeno 840 neri africani sono stati arrestati. Tutto ciò avviene alla luce del sole, nulla vieta infatti agli esponenti del Partito nazionalista tunisino, portatori dell’idea della “grande sostituzione demografica”, di promuovere le loro tesi online ed essere intervistati senza alcuna conseguenza giuridica. Al contrario negli ultimi mesi, i vari mezzi di informazione hanno radicalizzato le campagne contro i neri africani.
I dati del dipartimento degli affari economici e sociali delle Nazioni Unite, l’Undesa, dimostrano una realtà lontana dalle presunte minacce extracomunitarie: dei dodici milioni di abitanti della Tunisia infatti, nel Paese vivono solo 57mila persone originarie dell’Africa subsahariana. Inoltre, l’intenzione degli immigrati è quella di ripartire: pochi anni fa il ministero degli esteri ha eliminato il visto per i cittadini di alcuni paesi subsahariani per rafforzare gli scambi economici; e così tutti, tra cui una grande percentuale di studenti, sono arrivati in maniera legale.
Se oggi si ritrovano a risiedere in territorio tunisino in maniera illegale è per colpa della burocrazia tunisina, che non favorisce il rinnovo del permesso di soggiorno. Uno studio dell’Ins e dell’Osservatorio nazionale sulla migrazione rivela che i due terzi di questi stessi immigrati irregolari accusati di voler colonizzare il Paese, hanno intenzione di ripartire verso l’Europa. Kais Saied va inoltre contro la costituzione tunisina quando denuncia l’aumento del numero di chiese gestite da africani subsahariani: le libertà di credo e di culto sono garantite per legge.
Heba Morayef, la direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa, ha lanciato un appello contro le politiche discriminatorie del presidente e il loro impatto sociale: “Il presidente Saied deve ritrattare le sue parole e ordinare indagini per dare il chiaro segnale che la violenza razzista contro i neri africani non sarà tollerata. Deve smetterla di cercare capri espiatori per i problemi economici e politici del Paese. La comunità dei migranti neri africani ha il terrore di subire arresti arbitrari o espulsioni sommarie [..] Fino ad oggi le autorità tunisine hanno minimizzato se non negato completamente quanto è accaduto. Ora devono indagare sulle violenze della polizia contro i migranti neri africani, porre subito fine alle espulsioni e impedire ulteriori attacchi razzisti da parte di gruppi violenti o agenti dello stato”.
